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Stazione Ferroviaria
La storia delle ferrovie a Nuoro ha inizio negli ultimi anni dell'Ottocento: dopo essere stata tagliata fuori (tra vive proteste delle popolazioni locali) dalla rete ferroviaria delle Ferrovie Reali, la città barbaricina fu raggiunta nel 1889 dalla ferrovia a scartamento ridotto che da lì in poi l'avrebbe collegata con Macomer e con la Dorsale Sarda, oltre che con Chilivani tramite lo snodo di Tirso dal 1893 al 1969. Con l'apertura della Macomer-Nuoro fu inaugurata anche la prima stazione cittadina, costruita nell'area dove oggi sorge piazza Italia.
Negli anni cinquanta, nell'ambito del piano di ammodernamento della rete ferroviaria a scartamento ridotto della Sardegna, varie modifiche furono apportate al tracciato della Macomer-Nuoro, e contestualmente fu deciso l'arretramento della stazione cittadina in via Lamarmora, a poco meno di un chilometro di distanza da quella originaria. Il nuovo impianto, gestito dalle Ferrovie Complementari della Sardegna, fu inaugurato il 12 maggio 1958. Successivamente la gestione della stazione passò alle Ferrovie della Sardegna (frutto della fusione delle FCS con le Strade Ferrate Sarde) nel 1989, società che nel 2008 ha mutato ragione sociale in ARST Gestione FdS, la quale è stata assorbita dall'attuale gestore dello scalo, l'ARST, nel 2010. Sempre tra gli anni duemila e l'inizio del decennio successivo importanti lavori sono stati eseguiti nello scalo, con il fine di trasformarlo in un centro intermodale passeggeri
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Nostra Signora di Valverde
"Balubirde", ma il cui vero toponimo è "Gojne".
Stando a quanto si può ricavare dai documenti che ne illustrano la
storia fin dalla sua fondazione, si sa che questa "chiesa rurale" in onore di N.S.
di Valverde è stata fondata e dotata - con atto firmato a Nuoro il 3 maggio
1685 dal notaio Pietro Nieddu Guiso - da Nicolosa Sulis Manca, vedova di
Francesco Sulis Demonti.
In questo atto notarile è scritto che la chiesetta è stata voluta « per
la grande devozione, amore, e volontà, che la fondatrice porta alla SS. ma
Vergine Madre di Dio sotto l'invocazione di Valverde, volendo ad essa
manifestare grata riconoscenza ...per le grazie ottenute per la sua
intercessione...»
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Scuole Comunali " Benito Mussolini"
Fu costruita negli anni 1927-28 in una zona chiamata "Tanca e' prades" perché qui i frati di S. Francesco, che risiedevano nell'antico convento, coltivavano ogni tipo di verdura e cereali per la refezione ai poveri del paese. Questa scuola può vantare una doppia inaugurazione ufficiale: la prima nel 1928 alla presenza dell'Onorevole Costanzo Ciano, ministro delle comunicazioni ed eroe della prima guerra mondiale, la seconda il 3 maggio 1929 in occasione della visita a Nuoro della famiglia reale.
La scuola fu intitolata a Benito Mussolini che allora governava l'Italia. Dal 1943, invece, fu dedicata alla medaglia d'oro Ferdinando Podda, di Loceri, caduto nella prima guerra mondiale.
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Nuoro
La chiesetta, cara al premio Nobel Grazia Deledda che la cita nelle sue opere, ospita il sepolcro della scrittrice. Di origine seicentesca, è stata rifatta nella seconda metà del XX secolo su progetto del prof. Giovanni Ciusa Romagna. Interessante anche il portale in bronzo, opera dell’incisore sassarese Eugenio Tavolara.
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Nuoro
Sette Fochiles (Via Lamarmora)
Il recupero dell'anonimo ambientale
Mario Corda (Anno 2003 da un articolo su Nuoro Oggi)
Il recupero del Centro storico nuorese procede, forse non nel migliore dei modi, ma in qualche modo procede.
Procede perché affidato all’iniziativa privata, non alla “mano pubblica”. La pubblica amministrazione dovrebbe intervenire per il restauro delle case che già furono natali (e/o di abitazione) di Francesco Ciusa, di Gianpietro Chironi, di Sebastiano Satta; nonché per il recupero totale del “vecchio Convento”, il restauro del “vecchio tribunale”, il riacquisto di funzionalità del “vecchio ospedale”.
Ma non interviene. E, visti i precedenti (per essere chiari, quelli rivelatori di una sempre in agguato tendenza alle demolizioni, attuate anche passivamente, con la tattica del lasciar crollare, come nel caso del “mulino” Guiso Gallisai), è meglio che non intervenga. E’ bensì in atto il restauro del cine-teatro Eliseo e della chiesa delle Grazie; ma la lentezza con cui procedono i lavori lascia presagire che, quando questi saranno ultimati, gli iniziali interventi già reclameranno una nuova, ulteriore opera di restauro (proprio come sta avvenendo nella ricordata chiesa).
Il Centro storico, si diceva. Ma a Nuoro qual è, e quale ne è l’effettiva consistenza?
Credo dare una sola, appagante risposta. È l’anonimo ambientale, frutto di architettura per lo più spontanea, ancora esistente e visibile nei rioni San Pietro e S. Maria – Corso Garibaldi.
Quell’anonimo ambientale, cioè, che è la memoria storica di noi nuoresi, lo scenario che ha fatto contorno allo sviluppo della nostra etnia, le quinte che hanno fatto da sfondo all’opera poetico-letteraria di Grazia Deledda e di Salvatore Satta, nonché all’opera figurativa di Francesco Ciusa, di Francesco Congiu Pes, di Giovanni Ciusa Romagna. È, allora, un quid valoristicamente rilevante che, perciò, deve essere recuperato e salvaguardato.
Sono trascorsi quasi trent’anni da quando M.F. Farnè Gallisay scrisse su Frontiera che essendo la nostra memoria storica affidata non già alla testimonianza di fantomatiche ville palladiane, bensì all’anonimo ambientale, proprio al recupero di quest’ultimo si sarebbe dovuta rivolgere l’attenzione, tesa alla conservazione della nostra identità, purtroppo in disgregazione.
Quell’immagine esortativa m’è rimasta impressa, e la rispolvero ad ogni propizia occasione. M’è servita, quantomeno, quale incentivo all’approfondimento delle tematiche inerenti al recupero dei centri storici; e, in quest’ambito, a enucleare due fondamentali problemi meritevoli appunto di approfondimento: quello dell’individuazione dell’identità storica e quello della finalità del recupero.
Il primo problema l’ho già in parte enunciato: l’identità storica di noi nuoresi si concentra soprattutto (seguendo la tripartizione sattiana) nelle antiche case “rustiche” di San Pietro (chiaro esempio di architettura spontanea), nei meno antichi palazzi “di pretesa” (per dirla con Satta) del rione centrale Santa Maria – Corso Garibaldi, nelle bicocche di Seuna. Queste ultime, peraltro, sono ormai scomparse (la “corte de sos sette fochiles” è in via di demolizione); ma le altre restano, per quanto manomesse. E nella parte in cui non sono manomesse, andrebbero conservativamente valorizzate.
Guardiamo San Pietro. Vi sono in questo rione grandi case del Settecento, e nessuno sembra essersene accorto. Ad esempio, le due case contigue, alla fine di Via Chironi (le case Mavuli e Fois) risalgono certamente al Settecento, come anche testimoniato dagli archi in conci granitici. Non sono, certo, due esemplari di palazzi “artifici”; ma sono un documento storico che andrebbe conservativamente restaurato.
A Nuoro non sono molte le costruzioni risalenti al Settecento; sicché quelle ancora esistenti, previa accurata loro catalogazione, andrebbero conservate.
Forse, nella nostra Città, si è perso il senso d’importanza dell’identità storico-culturale; anche perché l’autentica etnia nuorese, quella orgogliosa delle origini, va man mano scomparendo.
Se non si conosce la storia di una città, di un qualunque agglomerato urbano, è difficile capire l’importanza del singolo recupero o restauro. Credo che, comunque, andrebbe compilato un catalogo, con l’elencazione di tutti gli edifici (oggi anonimi) dei quali può essere ricostruita l’origine o, comunque, un frammento di storia. Ad esempio, sulla falsa riga (dato il divario di proporzioni, anche da un punto di vista dell’importanza storico-artistica) di quello che Tatiana Kirova ha fatto per il rione Castello di Cagliari.
Nella storia di Nuoro non vi sono “avvenimenti storici” da narrare; ma vi sono persone che la letteratura ha trasformato in “personaggi”. Ed è proprio l’intrecciarsi di cronaca e di letteratura che potrebbe risvegliare quel diffuso interesse al recupero architettonico che è anche un facondo incentivo all’approfondimento di tematiche strettamente inerenti all’esaltazione di una cultura subalterna che aspetta solo di essere valorizzata. Si pensi, ad esempio, alla folla di personaggi che popola il sattiano romanzo Il giorno del giudizio.
Di molti di loro, previa restituzione del nome autentico (com’è nell’originale manoscritto sattiano), ben può essere ricostruita la “vicenda umana” (come, del resto, ha meritoriamente fatto in parte Gianni Pititu, col suo Nuoro nella Belle Epoque), corredata quindi dal riferimento topografico dell’individuazione della casa natale e/o di abitazione di ciascun personaggio.
Di personaggi come Pedduzza, Gonaria, Don Gabriele Mannu, Don Pasqualino, Bertolino, le relative case sono ancor oggi esistenti (qualcuna andrebbe però restaurata), sicché l’individuazione di esse, resa visibile con apposite targhe (così come intelligentemente hanno fatto gli attuali gestori del Bar Majore, già Caffè Tettamanzi), perché il parco letterario nuorese non resti privo di agganci tangibili.
Ma perché il restauro (dell’anonimo ambientale, s’intende) possa avere significato compiuto, occorre che gli immobili restaurati non rimangano immersi in un circostante mare di degradate rovine; ed è proprio da questa considerazione che prende spunto il discorso sul come e sul perché del restauro di ciò che, appunto, si è denominato “anonimo ambientale”; discorso che, ovviamente, va ampliato per ricomprendervi ogni possibile osservazione sulla opportunità dello stesso recupero. Il quale ultimo, ovviamente, se si parla di Nuoro, deve, per quanto si è accennato, restare affidato ai privati.
Ma si sa che a tale scopo occorre attuare un’adeguata incentivazione, concretabile anche col sistema degli sgravi fiscali, magari sollecitando l’emanazione di un’apposita legge statale, appunto “per il recupero del centro storico di Nuoro”.
Ho fatto all’inizio l’esempio delle due case settecentesche della Via Chironi; e non a caso, perché il parco letterario si apre, idealmente, proprio in quel punto. Per quanto ne so, esse appartengono attualmente al Comune. Il quale, evidentemente non interessato a quello specifico recupero, potrebbe bellamente metterle in vendita con la clausola dell’attuazione di un adeguato restauro. L’ingresso alla città, in un punto attualmente degradato, reclama proprio un intervento di tale tipo.
Ma qual è il significato culturale del recupero di quell’architettura anonima?
Aprirei un discorso di tale tipo osservando intanto che l’anonimato cessa di essere tale quando sopravviene un’adeguata, valida denominazione. Mi soffermerei un attimo ad osservare che le anonime figure di nuoresi, le quali hanno ispirato l’opera sattiana, sono prepotentemente uscite dall’anonimato quando sono diventate personaggi di un racconto che, per fama, ha varcato ogni confine. Dall’anonimato, però, essi sono usciti non già quali protagonisti di una qualunque storia, ma perché il relativo racconto attinge ai vertici dell’arte.
Si può, allora, da ciò trarre una logica conclusione.
Se il restauro ricostruttivo sarà condotto secondo criteri architettonici conformi a validi canoni estetici, quell’anonimato lapideo assumerà una individuante fisionomia che, favorendo una memorizzazione selettiva, entrerà a pieno titolo nelle classificazioni culturali. La cultura, infatti, è nient’altro che una selettiva memorizzazione di valori; sicché la “cultura artistica”, che è una species del più vasto genus “cultura”, sarà nel contempo causa ed effetto di quel recupero ambientale. Sarà un fatto culturalmente rilevante, quindi, creare un’ambientazione architettonica urbanistica che esalti il recupero dei singoli edifici. Mi sentirei, allora, di esaltare, a questo punto la selciatura in atto delle strade costituenti il percorso letterario-culturale: oggi, un perfetto, fedele rifacimento delle antiche selciature non avrebbe più senso.
Con l’antico impredau le automobili non sono compatibili (ne è un esempio l’inutile tentativo di selciatura della via adiacente la chiesa di Santa Croce), sicché è indispensabile la doppia “guida” lastricata.
Se questa, poi, si iscrive in un disegno caratterizzato da intrinseca piacevolezza estetica, tanto di guadagnato. Occorre, a questo punto, dare atto agli amministratori comunali di una positiva fattività, almeno per quanto attiene a questo settore del recupero urbanistico. Ma, d’altra parte, lo stesso Comune, restaurando la casa di piazza San Carlo (quella con i “contrafforti”), ha mostrato di saperci fare, quando vuole.
Non è peraltro inutile ripetere e ribadire – anche se la precisazione sembra rientrare nell’ambito dell’ovvietà – che l’elaborazione artistica in discorso deve attenere, in massima parte, proprio all’impianto architettonico circostante e, solo in minima parte (cioè per le rifiniture di dettaglio), all’edificio anonimo da restaurare. Il quale, per quanto anonimo, va salvaguardato nella propria individuante fisionomia. Ulteriore chiarimento, esplicativo di quanto or ora è detto, è che deve trattarsi di edificio inizialmente “anonimo”, perché se si trattasse di un edificio storico o, comunque, già artisticamente valido di per sé, l’intervento di restauro dovrebbe essere puramente conservativo, cioè esclusivamente tecnico, senza alcuno spazio di esplicazione della creatività artistica del restauratore. Ma gli edifici dei quali in questa sede mi occupo sono proprio quelli attualmente “anonimi”, ossia quelli che caratterizzano l’anonimo ambientale, i quali, a seguito del restauro che qui ipotizzo, dovrebbero addirittura, alla fine, perdere l’anonimato.
Tengo infine a chiarire che quella dell’iscrizione tematica nel capitolo dell’arte, allorché avviene il riscontrabile riversamento del gusto estetico nella progettualità ricostruttiva dei centri storici, non è una mia pensata dell’ultima ora, finalizzata magari a dare credito a un’improvvisazione legittimatrice dell’incursione in vanagloriose interdisciplinarità. È, invece, una stratificata idea che già nel 1998 ho voluto esprimere nel mio Filosofia estetica e critica dell’arte e che qui intendo con forza ribadire.
Chiedendo scusa al lettore per l’autocitazione, mi preme però ribadire che quest’ultima è finalizzata unicamente a esprimere la saldezza di un mio fermo convincimento, posto che l’esposizione di certe tematiche (quale quella qui enunciata, relativa appunto alla potenzialità artistica della creazione di magiche atmosfere emananti dalle antiche pietre) diventa legittima solo se sorretta da un’intima, stratificata convinzione. Il posticcio non convincerebbe nessuno e, perciò, non sarebbe neppure proponibile e, meno ancora, sarebbe accettato.
Il discorso si sposta allora sulla cultura, intesa nel suo vero significato di selettiva memorizzazione dei valori. Sicché il riaggancio ad essa della precedente enunciazione avviene in automatico, perché l’arte è un valore, uno dei valori sommi dello spirito.
Siamo così giunti al corollario.
L’anonimo ambientale, se debitamente recuperato nella piena osservanza dei canoni storico-estetici, esce appunto dall’anonimato ed entra a pieno titolo nel capitolo della migliore cultura. In altra occasione, e con palese intento elogiativo, ho definito “microcosmica” la collettiva dimensione culturale di Nuoro, almeno quella che ha immediatamente preceduto l’attualità.
Sicché l’ipotetico programma sarebbe, appunto, quello di convogliare la stessa attualità verso una direzione che l’aiuti a uscire dal silenzioso anonimato. Cosa, questa, che a me pare possibile solo se si creano le condizioni di saldatura tra le esplicazioni artistico-letterarie dei più dotati e la tangibilità della salvifica consapevolezza di quella identità collettiva che, purtroppo, è andata perdendosi. Il restauro dell’anonimo ambientale, allora, può essere visto proprio come punto fermo di quella tangibilità.
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Nuoro
Liceo Ginnasio Statale "Giorgio Asproni"
Storia:
Con la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861 nasce anche a Nuoro il Regio Ginnasio. Inizialmente, è costituito da un corso inferiore di tre anni e da uno superiore di due anni corrispondenti alle attuali IV e IV Ginnasio.
Nel 1921 il Consiglio Municipale di Nuoro delibera che il ginnasio venga intitolato a Giorgio Asproni. Dopo sessantasei anni dalla nascita, nel 1927, lo stesso Consiglio Comunale delibera per la costruzione di uno stabile che possa ospitare l'atteso Regio Liceo Ginnasio.
Nel 1928 l'ingegnere Aldo Satta ebbe l'incarico di redigere un nuovo piano di ampliamento delle strutture, attualmente site nell'area del centro di Nuoro, e più precisamente, a nord-ovest del centro storico. Nello stesso anno, all'ingegnere Giuseppe Pietrangeli venne dato l'incarico di redigere il progetto, che fu affidato all'ingegnere Giuseppe Bottiglieri
Nel 1929, al Regio Ginnasio, si aggiunge il Liceo Classico della durata di tre anni. Il corso di studi è in totale di otto anni: cinque di ginnasio e tre di liceo. Il Regio Liceo si istituisce a Nuoro solo tra i 1929 e il 1930, solo dopo vent'anni di tentativi dell'Amministrazione Comunale per ottenere un corso superiore di studi. Il Regio Ginnasio, costituito da due corsi, il triennio e il biennio, si modifica, diventando per il triennio Scuola Media, che diventerà autonoma solo nel 1940. I due anni di Ginnasio Superiore continueranno a chiamarsi IV e V Ginnasio, quantunque facenti parte, come prime classi, di un ciclo di Studi Superiori.
Nel 1930 Il Provveditorato delle Opere Pubbliche con sede a Cagliari approva il progetto in data 11 novembre.
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Nuoro
Liceo Ginnasio Statale "Giorgio Asproni"
Storia:
Con la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861 nasce anche a Nuoro il Regio Ginnasio. Inizialmente, è costituito da un corso inferiore di tre anni e da uno superiore di due anni corrispondenti alle attuali IV e IV Ginnasio.
Nel 1921 il Consiglio Municipale di Nuoro delibera che il ginnasio venga intitolato a Giorgio Asproni. Dopo sessantasei anni dalla nascita, nel 1927, lo stesso Consiglio Comunale delibera per la costruzione di uno stabile che possa ospitare l'atteso Regio Liceo Ginnasio.
Nel 1928 l'ingegnere Aldo Satta ebbe l'incarico di redigere un nuovo piano di ampliamento delle strutture, attualmente site nell'area del centro di Nuoro, e più precisamente, a nord-ovest del centro storico. Nello stesso anno, all'ingegnere Giuseppe Pietrangeli venne dato l'incarico di redigere il progetto, che fu affidato all'ingegnere Giuseppe Bottiglieri
Nel 1929, al Regio Ginnasio, si aggiunge il Liceo Classico della durata di tre anni. Il corso di studi è in totale di otto anni: cinque di ginnasio e tre di liceo. Il Regio Liceo si istituisce a Nuoro solo tra i 1929 e il 1930, solo dopo vent'anni di tentativi dell'Amministrazione Comunale per ottenere un corso superiore di studi. Il Regio Ginnasio, costituito da due corsi, il triennio e il biennio, si modifica, diventando per il triennio Scuola Media, che diventerà autonoma solo nel 1940. I due anni di Ginnasio Superiore continueranno a chiamarsi IV e V Ginnasio, quantunque facenti parte, come prime classi, di un ciclo di Studi Superiori.
Nel 1930 Il Provveditorato delle Opere Pubbliche con sede a Cagliari approva il progetto in data 11 novembre.
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Nuoro - Cattedrale
Arte e architettura
Interno
La cattedrale di Nuoro, in stile neoclassico è un edificio monumentale che si affaccia su una vasta piazza del centro storico cittadino. L'esterno della chiesa è caratterizzato dalla facciata, che ricorda un tempio di età classica, con quattro imponenti colonne in granito e capitelli ionici che reggono il timpano triangolare. Il prospetto è incorniciato da due campanili identici, coperti alla sommità da una piccola cupola. L'interno è ampio e solenne, con un'unica, vasta navata voltata a botte. Il perimetro della chiesa è percorso da una trabeazione retta da paraste con capitelli corinzi. Nella navata si aprono tre cappelle per lato, intercomunicanti e dotate di absidi semicircolari; gli ampi spazi tra una cappella e l'altra creano l'effetto di navatelle laterali. L'area presbiteriale è sopraelevata di pochi gradini rispetto all'aula e originariamente chiusa da una balaustra marmorea, rimossa in seguito ai restauri operati tra il 2000 e il 2006; sul fondo si trova l'abside semicircolare, dov'è collocato il coro ligneo.
All'interno nel presbiterio è presente un'importante tela dipinta da Alessandro Tiarini, pittore seicentesco allievo dei Carracci, raffigurante il Cristo morto. Il resto delle decorazioni pittoriche interne alla Chiesa fa riferimento alla scuola pittorica sarda dei secoli XIX e XX ed è sotto questo aspetto, importante per la conoscenza della produzione iconografica dell'isola in quel periodo.
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Nuoro
L'architettura nuorese dal Barocco Plateresco al Novecento
Mario Corda (Anno 2005 da un articolo su Nuoro Oggi)
2 - La prima fase dello stile eclettico
Con la costruzione della chiesa cattedrale inizia e si conclude a Nuoro la vicenda architettonica ispirata allo stile neoclassico. Ma proprio quella vicenda segna l’inizio di un’attività destinata a cambiare radicalmente il volto dell’abitato, determinando il passaggio da “paese” a “città”.
In epoca più o meno coeva alla cattedrale sorgono tre costruzioni che segnano appunto il risveglio da una stasi databile al Settecento. Quella che farà dire a Salvatore Satta, nel primo capitolo de Il giorno del giudizio, che la Nuoro d’inizio Ottocento era “un paese dove da cent’anni non si costruiva una casa”.
La più importante, per dimensione, è il palazzo del Seminario, opera di Giuseppe Cominotti, attivo prevalentemente a Sassari intorno alla prima metà dell’Ottocento. È un’opera che, pur nella schematica linearità costruttiva, si segnala per l’austerità, rotta soltanto da una decorazione in rilevato d’intonaco che caratterizza il portone d’ingresso, al di là dell’arco che congiunge i piani superiori dell’edificio con quelli dell’antistante palazzo della curia vescovile.
Le altre due sono il Palazzo Asproni, nel suo nucleo originario prospiciente la Via Asproni, e il Palazzo Bertino che si affaccia nella parte centrale del Corso Garibaldi, di fronte alla Piazzetta Mazzini.
Due palazzi, questi, che segnano l’ingresso a Nuoro dello stile eclettico con propensioni non ancora ben definite(1); entrambi, presumibilmente, progettati dall’architetto Giacomo Galfrè, già progettista e realizzatore dell’altare maggiore della cattedrale, con la collaborazione dell’ingegnere Antonio Orunesu, bittese trapiantato a Nuoro, nipote peraltro di Giorgio Asproni, cioè del committente della costruzione che prenderà appunto il suo nome.
I due (Galfrè e Orunesu) avevano lavorato insieme alla realizzazione della cattedrale ed erano “rivali” solo perché antagonisticamente sponsorizzati dalle opposte fazioni che avevano spaccato in due il Capitolo dei canonici. Giacome Galfrè, nonno materno di Salvatore Satta, si era segnalato per avere lavorato nell’Impresa Bertino che conduceva i lavori di pavimentazione del Corso Garibaldi (2), nonché per l’edificazione della fonte Su Cantaru, a Bitti, e di Istiritta, a Nuoro; in ogni caso professionalmente più valido di quanto non appaia nel romanzo sattiano (fu peraltro sindaco, a Nuoro, nel 1857) (3).
Il Palazzo Asproni è palesemente frutto di due successivi interventi costruttivi.
Quello che ora interessa è il nucleo centrale originario, la cui facciata a me pare attribuibile al Galfrè, se non altro per la presenza di elementi decorativi ben attribuibili a un architetto che aveva potuto vedere a Torino, una significativa opera di Filippo Juvara, e precisamente i palazzi contornanti la Piazza San Carlo (realizzata dallo Juvara, appunto, nel 1731).
E, nella Nuoro di allora, l’unico architetto che avesse potuto maturare quell’esperienza era, appunto, il piemontese Giacomo Galfrè, il quale aveva compiuto gli studi a Torino. In quel contesto storico, peraltro, l’architetto era solo autore dell’idea costruttiva, sicché per la realizzazione dell’edificio veniva affiancato da un ingegnere, coordinatore del progetto e dei lavori. Ed è ben comprensibile che quel ruolo fosse stato ricoperto dall’Orunesu, sia perché i due già lavoravano insieme, sia perché (il secondo) era nipote del committente.
Nel Palazzo Asproni a me pare di scorgere elementi decorativi che si rifanno al composto barocco piemontese riscontrabile nella ricordata opera di Filippo Juvara: l’incorniciatura ad arco (attuata con modanature in rilevato d’intonaco) che illusoriamente amplia le aperture rettangolari, i contenuti rosoni (sempre in rilevato d’intonaco) che piacevolmente spezzano la linearità delle modanature verticali, la realizzazione di aperture cieche finalizzate alla ricerca di una simmetria che l’utilizzazione interna dello spazio non aveva saputo creare. Il successivo ampliamento dell’edificio rivela a sua volta la mano del più fecondo degli architetti nuoresi, l’ingegnere Pietrino Nieddu. Ma di ciò più avanti.
Attribuirei al Galfrè anche il Palazzo Bertino, ma col solo elemento di riscontro che l’architetto già lavorava nell’Impresa Bertino e, a quell’epoca, non aveva a Nuoro concorrenti. Palazzo che si segnala per lo stile “veneziano”, unico a Nuoro, e per essersi conservato nelle forme originarie, al pari dell’antistante Palazzo Nieddu, risalente al Settecento. Stile che pare in certo senso ispirarsi a un non meglio definibile neogotico con vaga tendenza al tardo barocco, reso comunque agile dalla semplicità dei piccoli balconi in ferro battuto, reiterati ma non ingombranti, segnato al piano terreno dalla insistita serie di grandi aperture d’ingresso, ornato nelle volte dei vani terreni da cassettoni in stucco, ostentatori di uno status consentito solo, a Nuoro, a opulenti titolari di una superiore continentalità; a quei continentali cioè che, per dirla con Salvatore Satta, “trasformavano le pietre in oro (4).
* * * Con i tre descritti palazzi non siamo, però, ancora alla svolta, quella che determinerà il passaggio da “paese” a “città”. La vera svolta si avrà poco più tardi, quando comincerà a operare l’ingegnere Pietrino Nieddu, nuorese da generazioni ma formatosi a Roma, convinto ammiratore delle monumentali opere degli eclettici Pio Piacentini, Luca Carimini, Gaetano Koch, Giulio Podesti e Gustavo Giovannoni, i quali a loro volta avevano con profitto saputo guardare alle opere di Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini. Ma l’eclettismo degli architetti romani di fine Ottocento va qui chiarito, pur sommariamente, prima di affrontare il tema della sua pur ridotta, proporzionale trasmigrazione nuorese.
Se lo stile architettonico neoclassico rappresentò in certo senso una reazione al barocco, così contrapponendo una razionalistica linearità all’eccesso di volute e di elementi decorativi, lo stile eclettico (e in particolare quello che a Roma sarà denominato l’eclettico monumentale, o “umbertino”) rappresentò a sua volta una reazione al neoclassico perché si concretò nel fattuale ripristino di quegli elementi sinuosamente ornamentali che la tradizione storica aveva consegnato alla tecnica e all’arte.
Non si potevano, d’un colpo, cancellare i frutti di un’esperienza ultrasecolare, spaziante dal romanico al gotico, dal rinascimentale al barocco (fino al rococò); e tutto per inseguire una classicità che non poteva da sola esaurire la gamma delle aspirazioni creative.
Erano, infatti, anche altri e molti i valori che andavano tenuti in conto, allorché si volevano creare opere architettoniche degne di essere proiettate nel futuro, ossia opere artisticamente pregevoli. Occorreva, insomma, saper scegliere, nel calderone del passato, quel che di volta in volta, secondo le esigenze obiettive e la cultura dell’architetto, poteva proficuamente essere utilizzato.
Per questa ragione, il nuovo stile che scaturì dall’applicazione di tale programma fu, in seguito e con molta pregnanza categoriale, denominato “eclettico”, ovvero “eclettico monumentale”. Così, infatti, è oggi specialisticamente denominata la relativa scuola, appunto perché votata a cogliere da ogni passato stile architettonico quanto di valido veniva di volta in volta ritenuto; nella convinzione, forse, che tutto quanto era stato possibile creare era stato già creato, sicché la monumentalità (sconfessata dalla scuola neoclassica) ben poteva ancora restare affidata all’oculata scelta delle soluzioni che l’esprit de finesse suggeriva all’architetto.
Ma per quanto ampio fosse il calderone cui poter attingere, non vi fu un passivo adagiarsi ai primi traguardi. Anche nell’ambito dei criteri di scelta, infatti, ebbe a verificarsi un iter evolutivo, testimoniante l’ulteriorità di un generalizzato gusto che, naturaliter, tendeva comunque al novum.
È possibile, così, distinguere almeno tre periodi, nel loro complesso spazianti con sfumature dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento: un primo eclettico che in parte si rifà ancora al neoclassico, accentuando talvolta la prevalenza di questo su un reintrodotto barocco misuratamente berniniano o borrominiano; un secondo stile eclettico che coniuga la reintroduzione del barocco col nostalgico revival dello stile rinascimentale, con la particolarità che nella reintroduzione del barocco guarda non più, o non solo, a quello di scuola romana (ossia a quello prevalentemente berniniano o borrominiano), ma si concede qualche leziosità che sembra ammiccare talvolta al gotico, talaltra al barocco piemontese di marca juvariana, influenzato in parte dal rococò d’oltralpe; un terzo stile, infine, che potremmo definire di transizione verso il razionale, quello che mi parrebbe appropriato denominare di Belle Epoque e che comincia, ancor prima del sopravveniente Liberty, a perdere i pezzi di quanto appaia architettonicamente non finalizzato con rigore alla sempre più valutata utilità.
* * *
Queste tre grandi linee stilistiche, contrassegnate da un’evoluzione non sempre resa evidente nella concretezza di una miriade di esemplari, lasciano però fuori, d’un colpo, altri notevoli aspetti di quella complessità che caratterizza la scuola eclettica italiana. Così ad esempio, i pur riscontrabili influssi di un non mai tramontato barocco siciliano, o di quello napoletano, ovvero in un non mai abbastanza ammirato barocco leccese; ma v’è una ragione. Qui, infatti, ho ritenuto di dover prendere in considerazione quei soli filoni evolutivi dai quali è possibile, se proprio non si chiudono gli occhi, cogliere pur labili tracce in quell’architettura nuorese che miracolosamente si stacca dal generico, dominante anonimato che nulla concede all’esteriorità; pur esso inquadrabile, tuttavia, in un capitolo che ha trovato appropriata definizione classificatoria come “eclettico sardo (5).
Il periodo storico qui in esame, cioè quello che riguarda l’architettura nuorese “di pretesa (6), coincide grosso modo con quello che ho prima indicato, pur con lo spostamento temporale in avanti che contrassegna il peculiare ritardo dovuto all’insularità.
Ed è singolare ch’esso inizialmente porti un unico nome, quello dell’ingegnere Pietrino Nieddu (7), artefice di una qualificazione architettonica che, pur con qualche malaugurata eccezione (8), ancora sopravvive.
Dice di lui Salvatore Satta, ricordandolo col nome schermato di Don Gabriele Mannu: “era stato a Roma, aveva studiato, ed era tornato ingegnere in un paese dove da cent’anni non si costruiva una casa (9).
E poco più oltre: “egli aveva in mente i palazzi di Roma, le scale dove gli antichi salivano a cavallo (10).
Il Nieddu certamente era rimasto affascinato dallo stile eclettico romano (quello che, come ho già ricordato, prende il nome di “umbertino”), tendente alla concezione “monumentale” anche nella progettazione delle dimore private.
Il palese omaggio alla monumentalità che doveva qualificare la nuova Capitale del Regno si esprimeva (appunto nelle dimore private) soprattutto con la vistosità del portone d’ingresso, la cui altezza giunge talvolta a impegnare il primo piano dell’edificio, e delle scale: elementi architettonici finalizzati a impressionare il visitatore, e perciò simboli della grandiosità del nuovo piano urbanistico della Capitale.
Tutte cose che, nella proporzionale trasposizione nuorese (ad opera, appunto, del Nieddu), non piaceranno a Salvatore Satta, il quale considerava evidentemente uno spreco di spazio quanto il progettista Nieddu, in attuazione proprio di quella tematica, aveva concepito per l’edificazione della casa di abitazione di Satta Carroni, la casa ove Salvatore Satta era nato (nel 1902) e ove aveva vissuto la prima giovinezza (11).
L’opera più vistosa realizzata da Pietrino Nieddu fu certamente il Palazzo Mereu, nel Corso Garibaldi; nato come abitazione privata, poi diventato sede dell’Amministrazione comunale.
Occupava un’area molto vasta, che è poi quella occupata oggi dal moderno edificio (di per sé pregevole) ove ha sede il Banco di Sardegna, tanto che aveva un cortile interno quadrangolare, con molteplici accessi, a Nuoro unico esemplare del suo genere. Cortile che fu adibito a mercato pubblico, ivi trasferito dalla Piazza San Giovanni, dopo che questa, mutata per breve tempo la denominazione in Piazza Cavallotti, divenne Piazza Littorio, perciò fascisticamente inadatta al banale esercizio del minuto commercio (a Nuoro, tuttavia, il mercato continuò per lungo tempio a essere denominato “piazza”).
Forse quel cortile non era di per sé artisticamente pregevole; ma è certo che attirò l’attenzione di Flio Vittoriani che, in Viaggio in Sardegna, del 1936, lo descrive come una delle poche attrazioni nuoresi degne di essere menzionate (12).
Sembra, comunque, inutile attardarsi ancora nella descrizione di un palazzo che ormai esiste solo in qualche rara immagine fotografica. Se mai, può essere utile ricordare di esso quanto occorre per ricavarne la tipologia degli elementi decorativi tipici delle tematiche costruttive del Niedu, di modo che, individuato quello che potrebbe apparire come un inconfondibile “marchio di fabbrica”, si possa procedere a credibili attribuzioni, tenuto conto che il Nieddu operò solo nel settore della committenza privata, sicché nonv’è alcuna documentazione che possa facilitare quel compito.
In tale prospettiva, va subito notato che, a Nuoro, è attribuibile unicamente al Nieddu, ratione temporis, la decorazione delle aperture (finestre) con aggettanti cornici a edicola, di tipica origine rinascimentale, trasfuse poi nell’impostazione barocca e trasmigrata nella cultura eclettica (soprattutto romana) di fine Ottocento. Il Nieddu aveva potuto ammirare quella decorazione sia nel Palazzo Farnese (massima opera “civile” del Rinascimento romano), sia negli ottocenteschi, grandiosi palazzi di Gaetano Koch, in Piazza del-l’Esedra; e, nella realizzazione del Palazzo Mereu, volle cimentarsi nella messa a frutto di quell’esperienza. Ma nelle successive costruzioni, consapevole certamente del fatto che la monumentalità romana non era sempre riproducibile nelle ridotte dimensioni nuoresi, attenuerà la vistosità del genere decorativo, pur tenendo ferma l’incorniciatura ad aggetto delle finestre, ma ripiegando su una non meno vistosa mensola lineare.
Tipico esempio sarà il Palazzo Mastino che, come si vedrà in seguito, può a buon titolo essere considerato la massima opera del Nieddu.
Altro elemento individuante (peraltro risalente, addirittura, all’architettura classica, ma recepito incondizionatamente dall’architettura eclettica di scuola romana “umbertina”) è la modanatura dentellata sottostante i cornicioni di sommità, ma presente talvolta anche sotto le leggere cornici segnapiano. Modanatura dentellata che, talvolta, è immediatamente sovrastata da una membratura decorata da una serie di formelle ovali (ovoli), come ad esempio nel palazzo d’angolo tra la Piazzetta San Carlo e la Via Chironi (13).
Sulla base di questi elementi di decorazione, attribuirei allora al Nieddu, come opere di prima esperienza culturale (da inquadrare, appunto, nella prima fase dell’eclettico nuorese), oltre al Palazzo Mereu e quello or ora menzionato, il Palazzo Satta Carroni (la casa natale di Salvatore Satta), il Palazzo Muzio di Via Cavour, il Palazzo d’angolo tra Via Chironi e Via della Pietà, l’ampliamento, infine, del Palazzo Asproni (14).
Nel prosieguo di questa ricerca, sarà posta in luce un’evoluzione, nelle esperienze culturali del Nieddu, che in certo senso ricalca l’evoluzione dell’eclettico di scuola “umbertina”.
[font1]1) VICO MOSSA, Vicende dell’architettura in Sardegna, Sassari, Delfino, 1994, pag. 50, dice del Palazzo Asproni che fu costruito “con decorazioni neorinascimentali”. Salvatore Satta, ne Il giorno del giudizio, Cap. XI, dice del Palazzo Bertino, con palese intento ironico, che il proprietario “si era fatto la casa in stile veneziano”. Il proprietario, Pietro Bertino, è ricordato nel romanzo col nome schermato di Paolo Bertolino.
2) Che Giacomo Galfré avesse lavorato alle dipendenze dell’Impresa Bertino ai lavori di pavimentazione del Corso Garibaldi risulta da GIACOMINO ZIROTTU, Nuoro. Dal villaggio neolitico alla città del 900, Nuoro, Solinas, 2003, pag. 122 s.
3) ELETTRIO CORDA, Storia di Nuoro, Milano, Rusconi, 1987, pag. 40. Salvatore Satta, sempre ne Il giorno del giudizio (Cap. III) esprime un giudizio poco lusinghiero nei confronti del nonno materno (“Si dice … che fosse un architetto, ma chissà che cosa voleva dire architetto allora”); ma ingiustificatamente, a mio avviso, se fosse corretta l’attribuzione a lui (che io faccio) dei palazzi Asproni e Bertino. Satta non aveva grande simpatia per gli edificatori dei palazzi nuoresi. Giudizio tutt’altro che lusinghiero, infatti, egli esprime anche nei confronti dell’ingegnere Pietrino Nieddu (del quale sarà detto più avanti); ma anche in questo caso senza valida giustificazione, così come peraltro osservato da ELETTRIO CORDA, Atene Sarda, Milano, Rusconi, 1992, pag. 34.
4) Il giorno del giudizio, Cap. II.
5) FEDERICA DINI, La Chiesa delle Grazie e le sue pitture murali, Nuoro, Solinas, 2001, pag. 31, parla di “eclettismo sardo del XVII secolo” con evidente riferimento alle chiese per lo più campestri (tali erano, a Nuoro, quella, originaria, della solitudine, quella della Madonna di Valverde, quella sul Monte Ortobene), alla cui tipologia è conformata l’antica Chiesa delle Grazie, nonché le chiese di San Salvatore, di San Carlo, di Santa Croce. Queste chiese secentesche testimoniano che l’anonimato dell’architettura nuorese si è trascinato dal Seicento all’Ottocento, cioè fino a quando, con il Neoclassico e l’Eclettico, si è preannunciata l’architettura razionale del Novecento.
6) L’espressione è tratta da Il giorno del giudizio, Cap. II.
7) Va però ricordata (oltre quelle che ho ritenuto di attribuire al Galfrè e all’orunesu) l’opera dell’architetto (credo piemontese) Enrico Marchesi, ossia il carcere giudiziario di Via Roma, demolito inopinatamente nel 1975. Di tale demolizione ho scritto, recriminando, ne L’Unione Sarda del 30 ottobre 1988. Lo scritto è stato, poi, trasfuso nel (sempre mio) Corso Garibaldi, Nuoro, Il Maestrale, 1994, nel capitolo intitolato La sindrome demolitoria (pag. 51 s.).
8) Oltre quanto ricordato nella precedente nota, sulle scriteriate demolizioni attuate dagli amministratori nuoresi degli anni Settanta dello scorso secolo, ho scritto ne L’Unione Sarda del 12 febbraio 1989 un articolo intitolato Il culto delle demolizioni, ove tra l’altro lamentavo l’avvenuta demolizione del Palazzo Mereu che, se non la migliore, era certamente una delle opere più significative di Pietrino Nieddu (l’articolo è stato, poi, inserito nel ricordato Corso Garibaldi, pag. 61 s.).
9) Prima che venissero costruiti i ricordati palazzi di metà Ottocento, le costruzioni più notevoli, a Nuoro, erano quelle abitazioni settecentesche delle quali ho di recente parlato nel mio precedente scritto Il recupero dell’anonimo ambientale e il ritrovamento dell’identità collettiva (in Nuoro oggi, Luglio – Agosto 2003, pag. 32 s.).
10) Il giorno del giudizio, Cap. II.
11) Il giorno del giudizio, loc. cit.
12) Scrive Vittoriani: “È un cortile tutto bianco, questo mercato. Vi si vende di tutto dalla carne alla lana da filare, e tutto in piedi, tutta la merce addosso al venditore. Ma, poi, quasi ogni porta è un po’ bottega. Davanti alle più povere c’è per lo meno un mucchietto di pomodori in esposizione sopra una seggiola, che aspetta chi la compri – e non arriva a fare un chilo. Ma davanti ad altro vedo ceste d’uva, panieri d’ulive da salare, persino il banco d’un macellaio con mezzi montoni appesi alle finestre, ringhiosamente sorvegliati di sotto il banco da un cane”. Vittoriani, quindi, menziona la chiesa del Rosario (“con un mezzo tizzone d’albero accosto alla facciata tutta nitida, e a un campaniletto di creta secca su per aria”), nonché la cattedrale (“che troneggia isolata a ridosso di un brullo cocuzzolo; e su m’avvio. Non proprio per la cattedrale che sembra nuova e d’un femminile colorito rosa, come di batista; piuttosto proprio per il cocuzzolo”).
13) Palazzo che bene può essere attribuito al Nieddu, proprio per l’insolita (a Nuoro) presenza di quegli elementi decorativi di cui è detto nel testo.
14) Nel Palazzo Asproni (il cui nucleo originario m’è parso appropriato attribuire all’architetto Giacomo Galfrè), il quale già aveva facciata in Via Asproni, il Nieddu ricavò una seconda facciata, sulla Via Manno, senz’altro più austera della prima, ma non meno significativa.